Di Chiara Filipponi
A seguito dell’attesissimo incontro che è tenuto giovedì 15 marzo alle 18.00 al Caffè dei libri di Udine a cura di Aldo Galante, abbiamo pensato di approfondire la figura di Artemisia Gentileschi, donna controversa e interessante, che ha indubbiamente contribuito a costruire la figura femminile del XVII secolo.
Per provare a conoscerla dobbiamo fare un viaggio indietro nel tempo, precisamente nella Roma del 1600, in quel momento storico un grande centro artistico unico in Europa. La Riforma Cattolica, aveva infatti segnato per l’Urbe un’eccezionale spinta propulsiva, portando al restauro di numerose chiese e di conseguenza ad un sostanziale incremento di committenze che coinvolse tutte le maestranze artistiche allora disponibili.
Artemisia nacque nel 1593 da Prudenzia di Ottaviano Montoni e Orazio Gentileschi, pittore che risentì fortemente delle innovazioni del contemporaneo Caravaggio, dal quale derivò l’abitudine di adottare modelli reali, trasfigurandoli in una potente quanto realistica drammaticità. La madre di Artemisia morì nel 1605 e fu allora che la Gentileschi iniziò ad avvicinarsi alla pittura. La sua formazione avvenne proprio sotto la guida del padre, che introdusse la figlia all’esercizio della pittura insegnandole tutto, dalla preparazione dei materiali, all’esercizio del disegno, alla pittura. Inutile dire che Artemisia apprese le basi della pittura confinata entro le mura domestiche, non potendo fruire degli stessi percorsi di apprendimento intrapresi dai colleghi maschi: la pittura, all’epoca, era infatti considerata una pratica quasi esclusivamente maschile.
Col tempo Artemisia iniziò a collaborare fattivamente col padre, intervenendo anche su alcune tele di Orazio, passando poi ad opere autonome. A questo proposito, fu nel 1610 che la Gentileschi produsse quella che secondo alcuni critici è la tela che suggella ufficialmente il suo ingresso nel mondo dell’arte: Susanna e i vecchioni. L’innato talento per le Belle Arti di Artemisia fu indubbiamente motivo d’orgoglio e di vanto per il padre Orazio, che nel 1611 decise di allocarla sotto la guida di Agostino Tassi, artista con cui collaborava palazzo Rospigliosi. Nonostante la pessima reputazione di Agostino, Orazio aveva grande stima di lui, e fu felicissimo quando accettò di iniziare Artemisia alla prospettiva.
Tuttavia, gli eventi presero una piega tutt’altro che piacevole. Nonostante Artemisia non lo ricambiasse, Tassi si infatuò di lei e tentò di sedurla diverse volte contro la sua volontà. All’ennesimo rifiuto, nel 1611, quando Artemisia aveva appena 18 anni, Agostino la stuprò. Questo tragico evento, universalmente celebre, influenzò in modo drammatico la vita e l’iter artistico della Gentileschi che ne rimase per sempre sconvolta.
Per mettere a tacere la ragazza, Tassi le promise che avrebbe provveduto a risolvere la situazione con un matrimonio riparatore, che all’epoca bastava per rimediare al disonore arrecato. Allettata da questa promessa, e non potendo ormai fare altrimenti, Artemisia continuò ad intrattenere rapporti intimi con Tassi, nella speranza di un matrimonio che non sarebbe mai arrivato. Un anno dopo si scoprì che Agostino era già sposato, per cui Orazio, che aveva sempre taciuto sulla vicenda, indignato dal comportamento del collega, lo denunciò in una lettera indirizzata a papa Paolo V.
Fu così che ebbe inizio la vicenda processuale. Artemisia si trovò a dover affrontare il processo praticamente da sola, in un percorso dove la giustizia e la verità venivano sempre al secondo posto. Non solo parteciparono falsi testimoni che nonostante il rischio del reato di calunnia accusarono spudoratamente e falsamente la famiglia Gentileschi, ma Artemisia fu sottoposta ad interrogatorio sotto tortura per verificare la veridicità della sua storia. Nonostante i dolori patiti, ella si sottopose spontaneamente a tale supplizio e anche a tutte le visite ginecologiche del caso per appurare la verità su quanto da lei affermato.
Fu così che finalmente, il 27 novembre 1612 le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi per «sverginamento» e, oltre a commissionargli una sanzione pecuniaria, lo condannarono all’esilio perpetuo da Roma. Tuttavia, viste le sue continue commissioni a Roma, egli non scontò mai la pena e la vittoria di Artemisia fu solo sulla carta.
Successivamente al processo, lo stesso anno, Artemisia convolò a nozze con Pierantonio Stiattesi, un pittore di modesta levatura, con il quale si trasferì a Firenze, così da lasciarsi definitivamente alle spalle un padre troppo opprimente e un passato da dimenticare. Firenze in quel periodo stava attraversando un periodo di vivace fermento artistico, e la Gentileschi venne introdotta nella corte di Cosimo II dallo zio Aurelio, fratello di Orazio. Artemisia iniziò ad ottenere diverse commissioni che le procurarono non poco prestigio, tanto che nel 1616 fu la prima donna ammessa all’Accademia del Disegno di Firenze. Tuttavia, dopo la nascita dei figli, Artemisia iniziò a desiderare di rientrare a Roma, anche a causa dei debiti accumulati dal marito.
Dopo aver chiesto nel 1620 l’autorizzazione del granduca per recarsi nell’Urbe, l’artista ritornò nella Città Eterna nello stesso anno, e nel 1621 si insediò in un comodo appartamento a via del Corso. Ormai la Gentileschi non era più considerata una giovane pittrice inesperta e impaurita, condizionata dall’opprimente figura del padre, e in questi anni poté finalmente frequentare assiduamente l’élite artistica dell’epoca, nel segno di un’interazione più libera con il pubblico e i colleghi, ed ebbe agio anche di scoprire per la prima volta l’immenso patrimonio artistico romano, sia quello classico e protocristiano che quello dell’arte a lei contemporanea.
Nonostante la solida reputazione artistica raggiunta, la forte personalità e la rete di buone relazioni, il soggiorno di Artemisia a Roma non fu tuttavia così ricco di commesse come avrebbe desiderato poiché erano a lei precluse le ricche commesse dei cicli affrescati e delle grandi pale di altare, in quanto donna. Dopo vari soggiorni in diverse città italiane, nell’estate del 1630 Artemisia si recò a Napoli, valutando che vi potessero essere nuove e più ricche possibilità di lavoro. Il trasferimento in questa città divenne poi definitivo, tranne per una breve parentesi londinese. Nel 1638 infatti, Artemisia si recò a Londra presso la corte di Carlo I, dove il padre Orazio era diventato pittore di corte. Tuttavia, la Gentileschi non era andata a Londra per aiutare il dispotico padre nel suo lavoro, ma era stata convocata da Carlo I che la reclamava e non aveva potuto rifiutare. Grazie alla stima nei suoi confronti operata dal sovrano inglese, Artemisia ebbe dunque a Londra una sua attività autonoma, che continuò per un po’ di tempo anche dopo la morte del padre nel 1639, anche se non sono note opere attribuibili con certezza a questo periodo.
Nel 1649 era poi sicuramente rientrata a Napoli, e vi restò fino al 1653, anno della sua morte.
Leggendo la storia di Artemisia, vittima di violenze mentali e fisiche ad opera di uomini egoisti e possessivi, e di tragedie che l’hanno colpita durante tutto il corso della sua vita, non si può fare a meno di pensare a quanto incredibile debba essere stato il suo animo, piegato ma mai spezzato dalla durezza della vita. Come ha detto Aldo Galante, quello che ha davvero caratterizzato questa donna è la sua resilienza, ovvero la capacità di far fronte ad aventi traumatici reagendo in modo positivo. Anche oggi molte sono quelle donne che nonostante le sconfitte subite e i dolori patiti sono riuscite a veder riconosciuti i propri diritti, a vivere una vita normale, ad affermarsi professionalmente, a trovare un nuovo amore e a soddisfare la propria voglia di viaggiare e vedere il mondo.
In fondo un po’ di Artemisia è in tutte noi.