L’ARTE CHE SVELA L’ORRORE

Di Gianna Ganis

La bellezza insita nella verità, qualunque essa sia.

E’ il tema introdotto fin dal prologo del film Opera senza autore, del regista e sceneggiatore tedesco Florian von Donnersmarck, concetto ribadito più volte nel corso di oltre tre ore di durata.  La necessità di guardare, sempre e comunque, di non tirarsi indietro di fronte alla realtà dell’esperienza, sarà il principio guida per tre decenni del protagonista Kurt, in un film che funge anche da affresco della storia della Germania di metà Novecento e dell’evoluzione dell’Arte contemporanea.

Dresda 1938- Germania nazista. Elizabeth accompagna il nipotino Kurt a vedere una mostra di “arte degenerata”: la guida si indigna davanti a un quadro di Kandinsky e al suo valore di mercato, ma la zia sussurra sottovoce al bambino che a lei invece piace tantissimo. Kurt Barnert ha pochi anni e una passione segreta per la zia Elizabeth, una fanciulla sensibile con cui frequenta i musei, fa lunghe passeggiate e suona il piano. Prodigiosa ma fragile nella Germania nazista non c’è più spazio per le persone come lei e così, ricoverata in un ospedale psichiatrico, viene sterilizzata dal professor Carl Seeband e condannata a un destino crudele preludio di uno sterminio abominevole.  Prima di andarsene, fa però in tempo a dire a Kurt una frase: «Non distogliere mai lo sguardo.” Quelle parole, che sono anche il titolo inglese del film, molto più calzante di quello italiano, guideranno Kurt per il resto della sua vita.  Sopravvissuto al bombardamento di Dresda e cresciuto nel blocco dell’Est, Kurt ha un talento per il disegno e apprende gli studi classici imposti dal realismo socialista. Ma l’incontro con Ellie, figlia del ginecologo nazista che osteggerà il loro amore ,lo stesso che ha ha condannato sua zia, e il passaggio all’Ovest, cambieranno il suo destino artistico e riemergeranno il rimosso.

Liberamente ispirata alla biografia del pittore tedesco Gerhard Richter, artista vivente nato a Dresda nel 1932, formatosi nella Germania sovietica e passato a Ovest per amore della pittura astratta e della sperimentazione, la cavalcata attraverso i periodi cruciali della storia nel secolo breve riesce a utilizzare l’evoluzione psicologica dei personaggi per fare emergere con onestà sentimentale e perspicacia concettuale alcuni dilemmi, risaputi ma certo non risolti, sul significato universale dell’arte.

Il film si misura con l’identità tedesca utilizzando il privilegiato punto di vista di un artista e da buon romanzo popolare, pratica simultaneamente due registri, realismo e astrazione, muovendo da Est a Ovest e affermando il posto della pittura nell’arte contemporanea.

In riferimento alle vicende umane e all’arte di Richter, il regista descrive in queste poche righe, che lo ha ispirato nella costruzione della sceneggiatura:

“C’è un tipo di alchimia, che è propria dei grandi artisti, che consiste nel prendere le ferite della propria vita e trasformarle in qualcosa di emozionante e bello. È qualcosa che mi ha sempre affascinato: ho cercato di raccontarlo tramite i traumi di una famiglia. Questa è la storia molto personale di un uomo che si innamora di una ragazza ma il padre non vuole che questo amore continui. Volevo raccontare tre epoche della storia tedesca attraverso un’esperienza personale.”

Con singolare sovrapposizione con la programmazione del film, a Mantova il 6 ottobre (fino al 6 gennaio 2019) si è aperta la mostra Tiziano /Richter, Il cielo sulla terra, a Palazzo Te.  Tiziano Vecellio e Gerhard Richter: vissuti a circa millecinquecento anni di distanza, eppure accomunati da luce e colore. E dall’arte. In mostra la comunione tra i due artisti, che finiscono per fondersi. L’esposizione si apre, infatti, con l’Annunciazione di Tiziano, olio su tela del 1539 che arriva dalla Scuola Grande di San Rocco a Venezia. Un’opera dall’impostazione classica, che mette in luce il primo stile di Tiziano, destinato a mutare nel tempo, passando per il manierismo e arrivando a opere che appaiono modernissime. Gerhard Richter ebbe modo di vedere, nel 1972 un quadro di Tiziano esposto su un cavalletto alla Biennale d’Arte a Venezia: il fascino dell’allestimento che ne richiamava lo studio del “rendere l’arte un’opera d’arte” accese in lui la voglia di costruire un dialogo con il pittore cinquecentesco, un’ispirazione che lo avrebbe accompagnato per molti anni. Nel 1973 Richter dipinse infatti cinque tele ispirate a tale opera. E poi altre ancora, trasfigurando la pittura in puro colore, facendo diventare la parola fatto.

Consigliatissimi sia il film che la mostra.

 

Dal 1957 al 1961 Richter fu impiegato come insegnante nell’Accademia di Dresda ed in questo periodo il suo stile pittorico restò legato alla pittura di partito secondo i canoni del Realismo socialista e realizzò un affresco dal titolo  Lotta del lavoratore e numerosi autoritratti e ritratti ad olio.
Qualche mese prima della costruzione del muro di Berlino (1961) lui e la moglie fuggirono a Düsseldorf in Germania Ovest dove scoprì
l’Espressionismo Astratto e le tendenze dell’Avanguardia, stringendo amicizia con altri artisti della sua generazione. Nel 1962 Gerhard Richter cominciò ad usare le fotografie di paesaggi, ritratti e nature morte come base per i suoi dipinti da completare con il colore con l’intento di far interagire l’astrazione fotografica e la fisicità pittorica. Verso la fine degli anni sessanta Gerhard Richter inizia la sua fase Costruttivista lavorando in modo più manuale, creando tavole a colori, vetri e specchi, approdando infine alla fase Astratta caratterizzata dapprima da colori fluidi, poi in grafici a colori, nei quali non hanno spazio le immagini, ma hanno valore di esperimenti nella pennellata e nell’applicazione della vernice.

Post a comment