Di Gino Colla
Il 31.5.2020 è mancato per cause naturali il noto artista Christo Javacheff, noto come Christo, di 86 anni, nel suo studio a Soho.
Ricordo che con un viaggio organizzato dal Guggenheim Museum nel 2012, lo incontrammo esattamente nel suo studio di Soho, al secondo piano, dove ci fece vedere delle diapositive di un suo progetto per delle tende arancioni su un fiume nel Colorado, e del sistema tutto suo di autoprodursi le opere, molto costose, tramite cessione dei disegni, e di brandelli delle tele usate, in particolare, nell’ultimo periodo, di colore arancione. Alla mia domanda se si riconoscesse come interprete della Land Art, si arrabbiò molto, e disse che un artista vero non può essere inserito in una corrente, ma la sua creatività è originale e autonoma dagli altri.
In realtà, come vedremo tra poco, anche casualmente, ma il suo lavoro era molto vicino a quello della Land Art. Altro elemento che mi piace ricordare è la sua installazione sul Lago d’Iseo (The floating piers), che ha avuto un milione di visitatori nel 2016. Nel presentare il suo progetto, così come aveva sempre fatto, parlava al plurale, come se la sua musa, Jeanne Claude, gli fosse accanto, anche se da parecchi anni è morta. L’installazione e la mostra collegata al Museo di Santa Giulia di Brescia, era stata organizzata anche con l’importante apporto del critico italiano Germano Celant, anch’esso scomparso il 29.4.2020 all’età di 80 anni, e inventore dell’Arte Povera italiana.
La Land art, è un’invenzione americana, nata nel decennio 60-70, con dei lavori ancor oggi presenti e rilevanti, quali lo Spiral Getty di Smithson nello Utah, il Lightening Field di Walter De Maria, vicino Albuquerque nel New Mexico, e Double Negative di Michael Heizer nel Nevada. Ancora in corso di lavorazione, segnalo il Vulcano in Arizona scavato ad arte da James Turrel.
La Land art vuole rappresentare la “volontà di potenza” dell’artista sulla Natura. Al di là della spettacolarità, è un tema inquietante, sviluppato durante il Covid, perché la Natura andrebbe forse ascoltata e vissuta, anziché trasformata con mezzi meccanici. Alcuni artisti, non i casi citati, ancora visibili nello stato originario, hanno aggiunto l’elemento tempo alle creazioni con il paesaggio, restituendo poi i luoghi allo stato originario. Così è avvenuto anche per Christo, che dopo aver coperto monumenti (Porta di Brandeburgo) o isole, così come il passaggio sul lago, poi distrugge il tutto, o meglio, lo trasforma in piccoli ricordi di ciò che è avvenuto. Una sfida nel fermare il tempo, tempo che passa, e si trasforma, così come l’opera d’arte.
Una frase che Christo aveva detto e che esemplifica quanto detto, è la seguente: “Ritengo che ci voglia più coraggio a creare cose che poi se ne vanno, che a creare cose che restano”. Una frase profonda, che lo distingue da altri artisti, e che lo proietta nel sistema di alcuni contemporanei (tra cui Kiefer) che ritengono che l’auto distruzione (generativa), sia il fine ultimo dell’arte.
Ma questo pensiero non esemplifica Christo nella sua vita. Le sue (insieme alla moglie) opere transitano, ma l’amore e la dedizione alla sua compagna sono rimaste eterne. Un bell’esempio di trasformazione dell’amore e del sentimento in qualcosa di creativo e perenne nello stesso tempo. Anche questa sua testimonianza nei fatti, e non solo nelle parole, lo rendono grande ai nostri occhi.