Di Gino Colla
A giugno, a Bristol, è stata abbattuta la statua di George Colston, schiavista, da parte del popolo che protestava a supporto del movimento Black Lives Matter. Successivamente, con un blitz notturno, quella statua, è stata sostituita da quella di una donna, per di più nera, con il pugno alzato. La stessa è opera di Marc Quinn, scultore inglese, noto anche per le immagini ispirate dall’attrice Kate Moss.
Ha senso abbattere le statue per protesta? La domanda si pone ormai molto spesso, dove più che distruzioni, si vedono atti vandalici, come verso Montanelli a Milano, o la Statua di Minerva nel Giardino Ricasoli a Udine. Il ricordo più emblematico è anche la famosa distruzione di Saddam dopo la guerra in Iraq.
Su questo tema si è accennato anche nella presentazione, organizzata da On art, del libro Valori e simboli del Friuli, scritto da Simonetta Daffarra con i studenti del Liceo Marinelli.
La street art, da arte proibita e perseguita, è diventata di moda. Le opere di Bansky sono in mostra anche a Ferrara in questo periodo, e a Genova c’è un’esposizione di Obey.
La post-modernità ha sdoganato come degno di ammirazione il lavoro di rivisitazione di muri e periferie urbane. Tutto in nome della bravura dell’artista, o della ricerca spasmodica di novità nel mondo dell’arte, dove il quadro non interessa quanto la performance o l’idea sugli spazi naturali (Land art, e dintorni, come ci ha presentato il grande Christo).
Ma con la distruzione delle statue si persegue un fine propagandistico, che mi ricorda i turpiloqui sui social.
La storia non si cambia, altrimenti la nostra memoria e le nostre città non sarebbero più le stesse. La memoria va preservata, nel bene e nel male. Se il passato venisse ribaltato alla luce della modernità anche le nostre certezze sarebbero stravolte.
Jung vedeva nelle opere d’arte, antiche e non, i simboli degli archetipi dell’inconscio collettivo, che è parte del nostro inconscio personale. Quando si nasce, al di là delle pulsioni del neonato, studiate da Freud e seguaci, la nostra anima si porta dentro la storia del mondo e del vissuto dell’uomo.
Distruggere i monumenti diventa una forma di distruzione di noi stessi. Masochismo che ha a che fare con il senso di colpa per aver prodotto tanti danni all’ambiente e al prossimo. Recupero di un super ego (questo sì freudiano), che abbiamo dimenticato nella illimitata voglia di potere.
È più facile abbattere delle statue che modificare il nostro Es, dove vi sono sistemi di repressione del desiderio che portano alla violenza e alla proiezione all’esterno dei nostri tormenti.
Il tutto anche se, nell’arte contemporanea, taluno sostiene che la finalità ultima sia la distruzione (cfr. Kiefer), per poi giungere a costruire qualcosa di nuovo. Forse in questo periodo storico bisognerebbe tornare al Kalos kai Agaton platonico, a una ricerca del bello e del buono fine a sé stesso. Per salvare noi stessi dal ritorno all’età della pietra.
E questa ricerca ha molto a che fare con il libro prima citato, cioè alla ricerca e il recupero del nostro passato. Per quello che è stato, senza giudicarlo, ma per ricordare ciò che si è perduto e ciò che deve essere recuperato… nella parte interiore del nostro essere.