Di Francesca Cerno
“La scrittura autobiografica è la scrittura più coraggiosa e spudorata che ci sia. Chiunque ha il diritto di raccontare la propria storia, a se stessi e a chi vuole ascoltare. Per dire che abbiamo vissuto, abbiamo attraversato il fuoco e abbiamo ancora questa scintilla intatta. E vogliamo raccontarla.”
Così Rossana Campo, Premio Strega Giovani 2016. Perché questa tipologia di scrittura, nella quale il narratore coincide, anche se non perfettamente, con il protagonista è così significativa per l’essere umano? A fornirci una possibile risposta è James W. Pennabaker, Professore di Psicologia all’Università del Texas e Austin, dalle cui ricerche in ambito terapeutico si evince che la trasposizione scritta delle proprie esperienze di vita e dei relativi stati d’animo contribuisce a migliorare la salute psicologica e fisica. E questa pratica, indagata da una pluralità di filosofi, a partire da Derrida, condotta da scrittori pluripremiati e oggetto di pratica quotidiana alla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari fondata da Duccio Demetrio, è disponibile per tutti noi per dare un senso agli avvenimenti del passato, stabilire dei nessi e delle coerenze con quanto si fa e si è oggi. L’autobiografia ci dà infatti l’occasione di rivisitare noi stessi e ricomporre i frammenti delle vicende che abbiamo attraversato. Ma come si accede al ricordo? Maria Zambrano, filosofa spagnola del Novecento che ha più volte sottolineato l’importanza dell’auto-narrazione, va a caccia dei ricordi, li forza, fruga nella memoria. In particolare, la scrittrice utilizza il termine desnacer, traducibile con la parola dis-nascere, che fa riferimento a un ritorno alle origini: “questo movimento è un raccogliere ciò che in noi e attorno a noi è nato, per riscattarlo dalle oscurità iniziali e dargli occasione di rinascere.” Un’altra modalità è quella contemplata da Marguerite Yourcenar, che in uno dei suoi libri, l’Eternité, scrive: “A lungo ho creduto di avere pochi ricordi d’infanzia, intendo quelli anteriori al settimo anno, ma mi sbagliavo. Penso piuttosto di non aver dato l’occasione fin’ora ai ricordi di risalire fino a me.” Si tratta, in sintesi, di un continuo ondulare, di un movimento tra uno sforzo nostro di acciuffare quelle entità che resteranno sempre nella loro supposta oggettività sconosciuta, e il piacere di aspettare che i ricordi ritornino.
Qualunque sia la modalità che si prediliga, una cosa è certa: in noi c’è l’esigenza di un’auto-narrazione e una molteplicità di tecniche per soddisfarla.